La prima emergenza nel funzionamento della democrazia italiana è la crescita dell’astensionismo. Questo è il segnale che accomuna Sardegna e Abruzzo.
Ci sono stati episodi di partecipazione massiccia al voto che confermano che quando si è chiamati a decidere su argomenti di grande rilievo in modo chiaro la situazione cambia, come in occasione del referendum del 2016 che bocciò la deformazione costituzionale proposta da Renzi.
Da anni sono in vigore leggi elettorali che hanno creato una frattura tra eletti ed elettori. Di fatto l’elezione di deputati e senatori non dipende dalla scelta dell’elettore ma dai capi dei partiti. In pratica si tratta di cooptazione dall’alto. L’unica vera incognita è quanti voti prende la lista di partito, chi sarà eletto è deciso a tavolino dai capi partito.
Per questo è stupefacente l’ineffabile affermazione di Giorgia Meloni che chiede agli elettori se preferiscono eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, fingendo di dimenticare che lei è anche il capo di Fratelli d’Italia (e del suo partito europeo) e che la proposta è legata ad una legge elettorale che toglierà per sempre l’autonomia decisionale dei singoli parlamentari (in barba all’articolo 67) che verranno nominati dall’alto, cioè da lei, al solo scopo di sostenere il governo del Presidente del Consiglio, con in più il ricatto di elezioni anticipate se sgarrano.
Il veleno del maggioritario è stato portato nel sistema politico dimenticando che la nostra Costituzione delinea un sistema di pesi e contrappesi, di garanzie per evitare di tornare al governo del capo come nel ventennio, basato su un sistema elettorale proporzionale.
Oggi non è più così, il rosatellum in vigore ha regalato nel 2022 alle destre un premio di maggioranza del 15%, trasformando il 44 % di voti ottenuti nel 59 % di deputati e senatori. Questa maggioranza parlamentare spropositata, che altera la parità nel voto in modo inaccettabile, viene ora usata per imporre l’autonomia regionale differenziata, versione Calderoli, che porterà l’Italia verso 20 staterelli.
Il Covid ha dimostrato che occorrerebbe tornare ad un vero sistema sanitario nazionale, superando laderiva attuale in 20 sistemi regionali, ma il patto scellerato tra Lega e FdI porterà a rompere l’unità su diritti fondamentali come sanità, istruzione, lavoro e alla creazione di barriere tra le regioni sulle scelte economiche. Un disastro per l’unità nazionale, che a FdI non sta a cuore come afferma.
L’altro corno del patto scellerato è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio che taglia i poteri al Presidente della Repubblica e riduce il parlamento ad appendice del governo, per di più insistendo con la menzogna che i poteri altrui non verrebbero toccati.
Giorgia Meloni vuole uscire dalla Costituzione democratica ed antifascista del 1948 e ottenere una diversa legittimazione, iniziando un percorso di modifiche costituzionali. Immaginare che La Russa potrebbe essere il successore di Mattarella, un incubo con cui è bene fare i conti.
Occorre respingere le modifiche proposte dal governo alla Costituzione e la creazione di un’Autonomia regionale differenziata che fa a pugni con i suoi principi fondamentali. Anche ricorrendo ai referendum se necessario, purtroppo è in corso un lavorio per impedire il referendum sulle modifiche della Costituzione, che può riuscire solo se una parte dell’opposizione vota con la destra.
E’ importante che si apra una seria discussione sulla legge elettorale che la destra vuole maggioritaria e legata a filo doppio con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Il maggioritario ha fallito i suoi obiettivi, ha spinto metà degli elettori nell’astensione e questo mina la stessa democrazia, che è ben più che votare ogni 5 anni.
Le opposizioni debbono riflettere sul ritorno al proporzionale e dando la possibilità a chi vota di scegliere la persona che lo deve rappresentare, questo ristabilirebbe un rapporto di fiducia tra eletto ed elettore, che il maggioritario ha interrotto.
Dopo il voto si formeranno maggioranze parlamentari sulla base di un programma concordato, sul modello tedesco. Condivido Travaglio: “la politica è fatica, mediazione, compromesso tra istanze e interessi diversi”. Dopo il voto occorre decidere programma e obiettivi. Ci può essere la preferenza unica o collegi uninominali con eletti in proporzione su base circoscrizionale e nazionale, l’importante è che l’elettore sappia chi sceglie.
Costringere gli elettori a scegliere in un bipolarismo forzato può solo allontanare ancora di più gli elettori dal voto, restringendo le basi della rappresentanza e della democrazia. Oggi questa consapevolezza non c’è, ma l’impegno a respingere il premierato e il maggioritario al suo servizio è occasione per fare questa discussione e decidere le scelte migliori.
(www.strisciarossa.it - 7 marzo 2024)
La Via Maestra si candida a interpretare la domanda di riscossa sociale su temi di fondo come sanità, scuola, povertà e nell’affermare diritti misconosciuti come il rinnovo dei contratti di lavoro e il diritto dei sindacati di essere ascoltati sulle scelte di fondo per il futuro dell’Italia. La Via Maestra si è allargata dal nucleo originario ad un’area molto ampia di associazioni ed organizzazioni.
Sabato 2 marzo si è svolta una partecipata assemblea nazionale, punto di coordinamento di soggetti e associazioni di varia natura (oltre duecento), che si è consolidato negli ultimi tempi e di cui la Cgil è un punto di riferimento.
La novità di rilievo dell’assemblea del 2 marzo è l’avvio di un programma di iniziative su pace, democrazia e Costituzione, lavoro e un insieme di obiettivi sociali, decisi dall’Assemblea nazionale della Cgil, che ha anche dato mandato alla segreteria nazionale di predisporre tre referendum abrogativi su licenziamenti individuali, precarietà del lavoro, modifica degli appalti da affiancare e intrecciare al referendum abrogativo sull’autonomia differenziata differenziata che la Cgil contribuirà a promuovere non appena il ddl Calderoli dovesse essere approvato definitivamente. È un intreccio importante di obiettivi sociali ed istituzionali.
Capitolo a sé stante è il referendum costituzionale sul premierato, modifica costituzionale che Giorgia Meloni vuole fortemente, ma che ha tempi probabilmente diversi. Infatti, la proposta di revisione costituzionale deve essere approvata, sulla base dello stesso testo, due volte a distanza di almeno tre mesi da ogni ramo del Parlamento e per ora è ancora al primo esame del Senato, quindi resta difficile dire con certezza quando sarà possibile procedere con il voto del referendum.
Il legame tra le diverse iniziative referendarie va definito tenendo conto delle diversità delle materie e dei tempi di attuazione.
Un rinnovato impegno della Cgil e de La Via Maestra
La Cgil e tutta la Via Maestra hanno confermato l’intenzione di organizzare un forte contrasto politico al premierato in tutta la fase del suo esame parlamentare, sapendo che il referendum popolare può arrivare solo dopo la sua approvazione perché questa è la regola dettata dall’articolo 138.
Sappiamo che sull’ipotesi di referendum costituzionale sul premierato è in corso un tentativo per bloccarlo proveniente da ambienti diversi. Questo tentativo va contrastato in radice in quanto per diventare realtà ha bisogno che una parte dell’opposizione voti insieme alla maggioranza di destra per farle raggiungere i due terzi dei voti parlamentari. Senza dimenticare che la proposta del premierato è del Governo, in particolare di FdI, infatti è firmata da Meloni e Casellati e le modifiche vengono discusse solo nei vertici di maggioranza, le opposizioni sono tagliate fuori. Perché mai le esse dovrebbero allora aiutare una maggioranza arrogante e autoreferenziale, dandole i voti che le mancano per arrivare ai due terzi (a favore) e bloccare così il referendum?
La Cgil punta a completare il quadro delle iniziative con un programma di interventi sulle materie sociali, ad esempio sanità e scuola, promuovendo leggi di iniziativa popolare e lanciando una campagna straordinaria per il rinnovo dei contratti di lavoro.
Grazie a questi impegni l’assemblea della Via Maestra ha potuto delineare una complessa strategia di iniziative, in cui certamente spicca la scelta referendaria ritenuta necessaria per alcune materie, proponendo a tutte le forze della società, della politica, della cultura e delle istituzioni che si riconoscono nei fondamenti della nostra democrazia, fondata sulla Costituzione del 1948, un’offensiva politica, sociale, culturale per attuarla e difenderla.
Perché questa è la vera discriminante politica: la Costituzione.
Verso l’allargamento de La Via Maestra
La Costituzione, infatti, non è responsabile delle difficoltà del nostro Paese, che sono da attribuire semmai ad errori ed insufficienze della politica. Anzi difendere ed attuare la Costituzione è la scelta strategica indispensabile per restituire all’Italia i valori fondamentali che debbono ispirare e guidare il futuro del nostro paese.
Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale aveva già proposto, insieme ad altri, di dare vita ad una discussione a tutto campo ne La Via Maestra per mettere al centro la Costituzione, il contrasto agli attacchi che le vengono portati a partire dal premierato, e il contrasto all’autonomia differenziata nella versione Calderoli, fino a considerare la possibilità di chiedere alle elettrici e agli elettori di pronunciarsi contro queste proposte attraverso i referendum e questa è la novità avvenuta, prima nell’assemblea nazionale del 3 febbraio, che ha determinato la scelta di dare vita a coordinamenti territoriali delle associazioni, che avrebbero come riferimento la Cgil, e ora in quella del 2 marzo.
In sostanza, è un cammino giunto a maturazione e che oggi offre ai diversi settori sociali e della cultura la possibilità di organizzare una risposta politica e sociale alla destra.
Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha sempre insistito sull’esigenza di dare vita ad iniziative larghe e unitarie e La Via Maestra è certamente la prima naturale sede di convergenza di una parte importante della società e della cultura. Abbiamo sempre aggiunto che ci sono altre associazioni, energie culturali e istituzionali che ad oggi non sono ne La Via Maestra e che occorre cercare di coinvolgere il prima possibile. Per questo, ad esempio, abbiamo incontrato la segreteria nazionale della Uil e cercheremo di allargare l’area di mobilitazione e di iniziativa anche in altre direzioni, in particolare verso il mondo giovanile, di cui difendiamo anzitutto il fondamentale diritto costituzionale di manifestare – contro le tentazioni repressive emerse – e di cui sosteniamo le rivendicazioni sociali e politiche.
Tanto più se si apriranno concretamente le condizioni per le iniziative referendarie, come auspichiamo, occorre svolgere un esteso lavoro di informazione, di formazione, ampliando la consapevolezza nell’opinione pubblica sulle scelte da compiere, sviluppando l’organizzazione comune di posizioni ed iniziative. Questa è una scelta strategica fondamentale.
Difendere la strategia referendaria
I referendum sono in questo momento l’unica possibilità per fermare scelte inaccettabili del Governo e di questa maggioranza, visto che il premio di maggioranza del 15%, ottenuto grazie ad una legge elettorale sostanzialmente incostituzionale, viene usato come una clava per imporre le scelte. Tanto è vero che le proposte su premierato e autonomia differenziata, dai testi dei ddl al lavoro parlamentare, sono gestite direttamente dal Governo e dalla maggioranza di destra. Non a caso Giorgia Meloni ha ribadito, prima di partire per Whashington e poi ancora a Toronto, che il suo obiettivo di fondo è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio stabilendo un legame stretto tra la vita del governo e quella della legislatura, per di più arrivando a ripetere la menzogna che i poteri del Presidente della Repubblica non verrebbero toccati, cosa palesemente falsa.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio porterebbe ad uno sconvolgimento della Costituzione e del suo assetto istituzionale perché cambierebbe la sostanza democratica e antifascista della nostra Repubblica, riducendo nettamente i poteri del Quirinale e ridimensionando drasticamente il ruolo del Parlamento che, da architrave delle istituzioni diventerebbe definitivamente subalterno al capo del governo, complice il ricatto della fine della legislatura, trasformando così la nostra Repubblica in una sorta di “capocrazia”.
Vanno difesi con determinazione gli spazi di democrazia che la nostra Costituzione garantisce alle persone, alle organizzazioni sociali, in particolare ai sindacati, e la possibilità per i cittadini di esprimersi con il voto nei referendum per respingere provvedimenti ritenuti inaccettabili. Oltre agli argomenti sociali, del lavoro, della povertà occorre porsi l’obiettivo di una nuova legge elettorale per restituire ai cittadini la possibilità di eleggere direttamente i loro rappresentanti, con una rappresentanza sostanzialmente proporzionale.
Giorgia Meloni punta all’elezione diretta dal capo del governo e ad un mandato a governare sostanzialmente in bianco per cinque anni, pena lo scioglimento delle Camere e il voto anticipato, mantenendo l’elezione dei parlamentari dall’alto, scegliendoli sulla base della loro fedeltà, mentre la scelta dovrebbe essere fatta dai cittadini per cercare di superare la divaricazione crescente tra eletti ed elettori e contrastare l’astensione arrivata a livelli preoccupanti.
]]>In questi giorni c’è chi si incarica di dare un appuntamento a nome di un’area di volenterosi a dopo le elezioni europee, quando i cittadini avranno già votato e quindi saranno usciti di scena, nell’illusione di costruire una nuova versione del premierato tale da bloccare il ricorso al referendum costituzionale, che è evidentemente la bestia nera dei fautori di questa posizione.
Il punto debole di questa posizione sta nel fatto che il Governo ha presentato una sua proposta di legge (firmata da Meloni e Casellati) sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, più o meno sul modello dei Presidenti di regione. Senza dimenticare che le modifiche al testo presentato dal governo vengono concordate dentro la maggioranza e presentate dal governo a nome di tutta la maggioranza.
Una proposta di legge di peso, che punta all’elezione diretta del Presidente del Consiglio, presentata dal solo Governo non è procedura normale. Anzi è un sequestro del confronto politico parlamentare all’interno della sola maggioranza. Come dimostra il comportamento della Lega che ha insistito al Senato per proporre suoi emendamenti per ottenere il 3° mandato per i sindaci dei comuni sopra i 15.000 abitanti e per i Presidenti di Regione.
Questi emendamenti a un testo di modifica della Costituzione sono una evidente forzatura e infatti sono stati ritirati o bocciati dalla stessa maggioranza.
L’ennesimo tentativo di cambiare la Costituzione
Certo non è il primo governo che prova a cambiare la Costituzione da solo, anche Renzi ci ha provato ma non c’è riuscito.
In passato le iniziative per cambiare la Costituzione sono state prevalentemente parlamentari, con tutti i partiti coinvolti, modalità molto diversa da una proposta del solo Governo, che presuppone un confronto tra maggioranza e opposizione. Un confronto in sostanza tra proposte diverse o alternative, senza steccati precostitutiti.
Infatti il Governo è espressione della sola maggioranza e – come sta avvenendo – sequestra la discussione sui punti decisivi, ad esempio modificando continuamente il punto sul capo del governo, facendo non poca confusione, anche perché non tutta la maggioranza è disponibile ad accettare il “simul stabunt simul cadent” tra governo e parlamento, cioè il legame inscindibile tra vita del governo e vita della legislatura.
Non va dimenticato che la proposta Meloni/Casellati in realtà non attua neppure il programma delle destre, che prevede l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, ma punta ad eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, che è cosa ben diversa.
Neppure è vero che la maggioranza degli elettori abbia affidato questo compito al Governo, perché nel 2022 ha votato il 63 % degli aventi diritto, la destra ha preso il 44%, cioè il 28 % dei votanti e tanto meno ha raggiunto la maggioranza degli aventi diritto al voto. Quindi la maggioranza degli elettori non ha dato alle destre alcun mandato per modificare la Costituzione del 1948 ed è discutibile che questo mandato ci sia stato anche da parte di tutti gli elettori della destra.
Una maggioranza che, in realtà, maggioranza non è
Senza dimenticare che la maggioranza parlamentare è stata ottenuta grazie ad una legge elettorale per vari aspetti incostituzionale, che ha “regalato” alle destre un premio di maggioranza del 15 %, facendole arrivare al 59 % dei parlamentari. E’ vero che le attuali opposizioni hanno sbagliato a non modificare la legge elettorale quando potevano farlo, ma questo non può essere un alibi per la maggioranza per usare il premio ottenuto in più di parlamentari come un randello per fare passare le sue proposte. Questo rende ancora più incomprensibile per quale ragione un governo che ha una maggioranza parlamentare esagerata voglia cambiare la Costituzione se non per segnare un risultato politico-ideologico, conquistare una bandiera per il suo elettorato.
Il governo ha presentato una proposta di modifica della Costituzione (il premierato) cercando di nasconderne le reali conseguenze sulla Costituzione e sull’equilibrio istituzionale, fino a oscurarne la portata.
Ad esempio. Il meccanismo elettorale proposto in Costituzione, anche tolta l’esplicitazione del 55 % di parlamentari garantiti al soggetto vincente, porterebbe comunque ad un legame inscindibile tra i parlamentari di maggioranza e il capo del governo. Questo legame entrerebbe, ad esempio, in conflitto con l’articolo 67 della Costituzione che prevede che il parlamentare agisca senza vincoli di mandato. Articolo che non viene modificato, mentre il governo propone in realtà un parlamento subalterno al Presidente del Consiglio eletto direttamente, sotto la minaccia permanente di elezioni anticipate. Due norme di significato opposto, destinate a creare una contraddizione nella Costituzione.
Il premierato proposto dal governo riduce drasticamente i poteri del Presidente della Repubblica a favore del capo del governo, ma finge che questo non avverrà.
Perché il governo nasconde le conseguenze delle sue proposte, rischiando di scrivere in Costituzione testi contraddittori ? Non solo per evitare forti contrarietà se diventasse esplicito il ridimensionamento del ruolo del Presidente della Repubblica da un lato e del parlamento dall’altro, ma per aggirare la necessità di prevedere un riequilibrio ai troppi poteri concentrati nelle mani del Presidente del Consiglio, il noto check and balance, questo anche a rischio di creare contraddizioni nei testi.
Si vuole fare della presidenza del consiglio una “capocrazia”
In altre parole il ruolo del Presidente del Consiglio diventerebbe una vera e propria “capocrazia”, senza dimenticare che nel concreto il parlamento sta accrescendo alacremente i poteri della Presidenza del Consiglio, ad esempio sulla stessa Autonomia regionale differenziata.
La Costituzione attuale si basa sulla divisione dei poteri con al centro il ruolo del parlamento, che non a caso nel 1948 – dopo lo scioglimento forzato della Camera da parte del fascismo – è diventato fondamento della nostra Repubblica, che è appunto parlamentare.
Perché Meloni ha bisogno dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio? Mi sembra evidente che cerchi una sua legittimazione popolare, oltre i voti al suo partito, ed è evidente che punta a superare la Costituzione democratica e antifascista che non le assicura questo risultato. Perché la nostra Costituzione contraddice le pulsioni autoritarie e qualche nostalgia di troppo del passato.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio è una sorta di “capocrazia”, visto che se ne riparlerebbe dopo 5 anni, con i parlamentari sempre nominati dall’alto e cooptati per fedeltà.
L’alternativa al premierato è semplice: fare eleggere agli elettori tutti i 600 parlamentari, cambiando una legge elettorale che ha letteralmente spezzato il legame tra rappresentanti (i parlamentari) e rappresentati (gli elettori).
È una presa in giro che Meloni chieda ai cittadini di eleggere direttamente il capo del governo in alternativa al potere dei partiti di decidere il Presidente del Consiglio, proprio lei che è Presidente di FdI, del suo partito europeo ed è a capo di un governo che ha una maggioranza parlamentare del 59%, usata per fare passare proposte di legge come l’Autonomia regionale differenziata e ora le modifiche della Costituzione.
È evidente che è in corso un tentativo che si autodefinisce trasversale di rimandare a dopo il voto europeo la ricerca di una soluzione sul premierato diversa da quella attuale. Francamente sembrano largamente sottovalutate le ragioni che hanno spinto Giorgia Meloni a forzare sul premierato. A volte sarebbe meglio prendere seriamente le ragioni altrui e prepararsi a contrastarle, anziché illudersi che siano da attribuire ad insipienza. Sottovalutare gli avversari è da sempre un errore e la proposta di premierato del governo è semplicemente inemendabile e in quanto tale da respingere, anche con il referendum costituzionale popolare, se non verrà fermata prima. Per fortuna i padri e le madri costituenti hanno previsto i referendum, in particolare quello costituzionale. Se non si arriva ai 2/3 dei parlamentari è possibile il referendum sulle modifiche della Costituzione e, grati ai costituenti, usiamolo per fermare questa destra. È l’occasione per rilanciare in Italia una battaglia per attuare e difendere la Costituzione.
]]>(www.strisciarossa.it - 10 febbraio 2024)
Le destre pasticciano e raccontano balle, ma stanno preparando un piatto avvelenato la cui prima vittima sarebbe la democrazia della Costituzione del 1948.
Il progetto di legge che punta all’elezione diretta del Presidente del Consiglio è del governo: questo va ricordato a quanti parlano di questa proposta come se si fosse frutto di una procedura normale, ma non è così. Certo, non è il primo governo che pretende di cambiare la Costituzione a suo piacimento (anche il governo Renzi ci ha provato, ma non ce l’ha fatta).
Una proposta del governo
In passato, quando si è cercato di cambiare la Costituzione, le iniziative sono state prese per lo più una sede parlamentare, quindi con il coinvolgimento di tutti i partiti presenti sia alla Camera che al Senato. Per questo sono nate le commissioni ad hoc come la “bicamerale”. Una commissione parlamentare è ben diversa da una proposta del solo Governo perché presuppone un confronto tra maggioranza e opposizione.
Mentre il governo rappresenta solo la maggioranza e, come sta avvenendo in questi giorni, sequestra la discussione su punti importanti, modificando continuamente il testo su come e quando si scioglie il Parlamento di fronte alla caduta del Presidente del Consiglio.
C’è un’altra anomalia di rilievo nella procedura scelta dal governo Meloni, che all’inizio aveva detto che la sua proposta avrebbe attuato il programma elettorale che ha ottenuto –e non è così – il mandato dagli elettori. Non è vero perché nel programma delle destre c’è l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, mentre ora si propone di eleggere direttamente il primo ministro.
Soprattutto, non è vero che la maggioranza dei cittadini abbia affidato questo compito al governo, perché nel 2022 ha votato il 63% degli aventi diritto e la destra ha preso il 44% dei voti di questi, cioè il 28% del corpo elettorale. Quindi la maggioranza dei cittadini non ha dato alle destre alcun mandato a modificare la Costituzione del 1948.
Altro discorso è la maggioranza ottenuta in Parlamento grazie ad una legge elettorale incostituzionale e che ha regalato alle destre un premio di maggioranza del 15%, gonfiando i propri gruppi parlamentari per portarli al 59%. Le opposizioni attuali hanno certamente sbagliato a non modificare il Rosatellum quando potevano avrebbero potuto farlo, ma questo non può essere un alibi per le balle della maggioranza.
Le trappole del premierato
Va sottolineato che il governo ha presentato una proposta di modifica della Costituzione che nasconde la realtà delle proposte e tenta di oscurarne la portata. Primo esempio: il meccanismo elettorale proposto dal governo, anche tolta l’esplicitazione della soglia minima del 55% alla lista vincente, porterebbe ad un legame inscindibile dei parlamentari con il capo del governo e ciò sarebbe in contrasto con l’articolo 67 della Costituzione, che prevede invece che il parlamentare debba agire senza vincoli di mandato. Mentre il ddl del governo propone un ruolo del Parlamento subalterno/fedele al governo e in particolare al Presidente del Consiglio eletto direttamente, sotto la minaccia di elezioni anticipate, con un evidente ricatto che finisce, nei fatti, per introdurre un vincolo di voto che l’articolo 67 invece esclude.
Il governo si è ben guardato dal proporre una modifica esplicita dell’articolo 67, ma vuole comunque introdurre nel ddl una norma ad esso opposta, creando un’evidente contraddizione tra due articoli della Costituzione. Non è l’unico caso di modifiche introdotte fingendo che non sia già previsto il contrario. La proposta del governo, infatti, riduce drasticamente i poteri del Presidente della Repubblica a favore del capo del governo. Stessa situazione verrebbe a crearsi per il Parlamento che diventerebbe, come detto, di fatto subalterno al governo e in particolare al premier.
Ma perché il governo cerca di nascondere le conseguenze delle sue proposte? Per diverse ragioni, le più importanti sono: la preoccupazione di non spaventare l’opinione pubblica con troppe modifiche, anche rischiando di scrivere in Costituzione previsioni contraddittorie; evitare di scatenare reazioni come quelle che potrebbero verificarsi se diventasse esplicito il disegno di ridimensionamento del ruolo del Presidente della Repubblica (si dice che la sostanza non cambierebbe, ma è una balla); l’obbligo di prevedere un riequilibrio di poteri nei casi in cui ne vengano concentrati troppi sulla figura del Presidente del Consiglio (il noto meccanismo del check and balance), che nella nostra Costituzione attuale esiste e si basa sulla classica divisione dei poteri con al centro il ruolo del Parlamento, che non a caso nel 1948, dopo lo scioglimento forzato da parte del fascismo, è stato messo a fondamento della nostra Repubblica.
La “capocrazia” meloniana
Perché Meloni insiste sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio? Perché sente il bisogno di una legittimazione, che la Costituzione democratica e antifascista non le assicura in quanto essa rappresenta un forte antidoto a pulsioni autoritarie e inopportune nostalgie. Per questo ci si è inventati la formula della Terza Repubblica (eco della Quinta Repubblica francese di De Gaulle) e della scelta diretta dei cittadini di chi deve governare, suggestione che è sempre stata forte a destra. L’insistenza sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, una sorta di “capocrazia”, dovrebbe appagare tutto e tutti, poi se ne riparlerebbe dopo 5 anni. Naturalmente i parlamentari dovrebbero continuare ad essere nominati dall’alto, cooptati per fedeltà, perché il loro compito è di garantire il governo del capo.
La controproposta a questo disegno, però , sarebbe semplice semplice: anziché limitarsi ad eleggere il capo del governo, non sarebbe molto meglio eleggere direttamente tutti i 600 parlamentari cambiando una legge elettorale demenziale che ha rotto il legame tra rappresentanti e rappresentati? D’altronde, con una legge proporzionale e l’elezione diretta dei parlamentari da parte dei cittadini cambierebbe la vita parlamentare stessa. Del resto, negli stati presidenzialisti come gli Usa, che eleggono direttamente il Presidente della Repubblica, il parlamento è eletto del tutto autonomo e senza vincoli nei confronti del Presidente. Vige, in quei sistemi, una forma di divisione dei poteri e di controllo reciproco.
È paradossale che Meloni chieda ai cittadini di eleggere direttamente il capo del governo visto, che è Presidente di FdI, dei Conservatori e Riformisti Europei e del governo italiano e che per di più si regge su una maggioranza falsata, che viene usata per fare passare le proposte come un rullo compressore, comprese l’Autonomia regionale e le modifiche della Costituzione.
In realtà, la proposta del governo cerca di garantire la permanenza al potere della maggioranza attuale, di relegare l’opposizione in un ruolo ininfluente e di modificare nel tempo altri aspetti della Costituzione, perché è evidente che nel mirino c’è il futuro Presidente della Repubblica che con la legge maggioritaria verrebbe eletto dalla sola maggioranza, che potrebbe così influire sulla Corte Costituzionale e sul Consiglio Superiore della Magistratura.
Le modifiche vanno viste per gli effetti immediati e per quelli che avranno nel tempo. Il risultato conclusivo sarebbe che la nostra Costituzione democratica – basata sulla divisione dei poteri – ed antifascista verrebbe compromessa. E così la Repubblica avrebbe una nuova Costituzione voluta dalle destre.
Difendiamo e lottiamo per attuare la nostra Costituzione, contrastando in Parlamento questa proposta e preparandoci al referendum popolare per bocciare questa svolta politica ed istituzionale autocratica ed accentratrice, che punta a fare diventare un/a capo/a l’unica figura istituzionale a cui tutti dovrebbero inchinarsi, senza neppure il coraggio di dirlo apertamente e senza la sensibilità democratica di affidare ad altri il potere di controllo e verifica del suo operato.
Le destre stanno litigando sul testo, ma questo non fa che rafforzarne l’arroganza e la protervia come dimostra l’inizio della discussione in commissione affari costituzionali del Senato. Facciamo suonare le nostre “campane” prima che sia troppo tardi.
(www.strisciarossa.it 25 Gernnaio 2024)
Alle “trombe” della maggioranza di destra, che ha approvato il ddl Calderoli al Senato, occorre rispondere con una dura opposizione alla Camera e se necessario con le “campane” del referendum per abrogare il ddl Calderoli. Era prevedibile, dopo il patto tra Salvini e Meloni sull’approvazione dell’autonomia regionale differenziata e del premierato, che accadesse, ma l’Italia e la sua democrazia pagheranno un prezzo pesante se questi due obiettivi diventeranno realtà.
I numeri in Parlamento, purtroppo, consentono alla maggioranza di procedere. Solo le sue contraddizioni, che non sono poche, danno la possibilità di bloccare questa deriva scellerata. Il senatore Balboni, presidente della Commissione affari costituzionali, meloniano doc, ha mostrato quanto forti siano le contraddizioni di Fdi affermando che era ed è contrario al titolo V, ma che ora non vuole modificarlo perché approvato da un referendum popolare in cui lui era minoranza. Si tratta di una evidente contraddizione logica come ha replicato meritoriamente con forza il senatore De Cristofaro.
Dopo il sì del Senato, bisogna battersi alla Camera
Ora il disegno di legge Calderoli passerà alla Camera e questa è l’occasione per una opposizione senza quartiere. Non si tratta di un passaggio formale. Occorre rilanciare l’iniziativa per tentare di bloccare l’approvazione definitiva di un provvedimento sbagliato e regressivo: basterebbe anche un solo emendamento per rinviarlo al Senato. La maggioranza proverà a forzare la mano, subendo il ricatto della Lega, e non si può escludere che ricorra perfino al voto di fiducia. Parte dell’informazione sembra dare per scontata l’approvazione, vedremo, per ora non è ancora così. Ma dare per scontato è un modo per scoraggiare il movimento contro che è molto cresciuto e può ancora estendersi.
Per questo è necessario continuare ad informare e favorire la mobilitazione e la battaglia politica per fare conoscere i pesantissimi rischi se questa proposta diventasse legge dello Stato, per fare crescere la consapevolezza che occorre bloccarla. Non si tratta solo del fondamentale pericolo che a una parte decisiva dei cittadini e delle Regioni vengano ridotti i diritti e le strutture per garantirli, ma di un colpo all’Italia tutta, compresa quella parte a cui è stato raccontato che la devoluzione dei poteri porterebbe loro vantaggi. In realtà l’Italia intera risentirebbe pesantemente di un dualismo crescente. Diventerebbe meno giusta, meno solidale e meno concorrenziale per la frammentazione delle norme per le imprese che ne limiterebbero e intralcerebbero la concorrenzialità.
Qualche dubbio è penetrato in una parte della maggioranza, tanto da spingerla a tentare di correre ai ripari facendo approvare emendamenti al testo iniziale che cercano di evitare un aggravamento delle divaricazioni già esistenti tra Regioni e tra aree del paese. Peccato che siano norme mal scritte e inefficaci. Alcuni concetti inseriti non saranno efficaci e non realizzeranno gli obiettivi dichiarati. Infatti, questa è una legge ordinaria che non può impedire che una legge successiva – come sono quelle rafforzate che dovrebbero approvare le intese tra regione e governo – cambi le carte in tavola, sostituendole o derogando. E’ lo strumento scelto per mettere precisi confini all’autonomia che è sbagliato e insufficiente.
L’unico modo per garantire che le regole siano in grado di vincolare qualunque legge consiste nell’inserirle in Costituzione, come del resto abbiamo tentato con la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. Ma i “preoccupati” della maggioranza non hanno avuto il coraggio di fare la scelta di inserire le modifiche nel titolo V della Costituzione, in particolare negli articoli 116 e 117 come noi abbiamo proposto, che oggi hanno formulazioni ambigue o sbagliate, che hanno permesso a Calderoli di dare sue interpretazioni, fino a contraddire i principi fondamentali della Costituzione che sono incompatibili con una legge che potrebbe rendere impossibile per i cittadini avere gli stessi diritti in ogni parte del nostro paese e finendo con il mettere in crisi la stessa unità nazionale.
E’ il momento di modificare il titolo V della Costituzione
A questo scopo era stata presentata la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per modificare gli articoli 116 e 117 che la maggioranza al Senato si è rifiutata di fare discutere prima del ddl Calderoli, come logica e razionalità avrebbero consigliato e poi ha bocciato, facendo un clamoroso autogoal. Se parte della maggioranza, segnatamente Fratelli d’Italia, voleva impedire scivolamenti pericolosi negli effetti del ddl Calderoli avrebbe dovuto lei stessa proporre modifiche al titolo V inserendo alcuni vincoli che a quel punto avrebbero condizionato senza possibilità di deroga. Ad esempio il vincolo inserito nel ddl per le Regioni che chiedono più poteri, e soprattutto più soldi: che le stesse risorse debbono andare a tutte le altre è modificabile da leggi successive. In Costituzione sarebbe un vincolo reale, in una legge ordinaria può essere aggirato.
E’ importante che i senatori dell’opposizione abbiano denunciato questo rischio, richiamando il disegno di legge di iniziativa popolare, ma non sono stati ascoltati dalla maggioranza che ha fatto del patto per la devoluzione di poteri alle regioni, tra Fratelli d’Italia e Lega, un punto (per ora) intangibile.
Il fatto politico nuovo è che la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare ha ricevuto il sostegno dell’opposizione. I 106.000 firmatari del ddl costituzionale popolare possono essere soddisfatti di avere contribuito a individuare nella modifica del titolo V un obiettivo necessario. Questo risultato non era scontato, ed è importante perché porta oggi tutta l’opposizione alla consapevolezza che il titolo V del 2001 va superato in alcune parti per bloccare scivolamenti pericolosi come avviene con il ddl Calderoli. Ci sono, insomma, le condizioni politiche e sociali per arrivare alla richiesta di abrogare questo scempio, se diventerà legge, con referendum popolare. Oggi occorre rilanciare le modifiche al ddl Calderoli alla Camera e spingere l’opposizione parlamentare a fare crescere la sua pressione sulla maggioranza mettendo in luce i rischi e i pericoli di questa scelta.
Il grande trucco nella distribuzione delle risorse
Il trucco nella legge c’è ed è relativamente semplice. Riguarda non solo i poteri ma le risorse che Regioni come Lombardia e Veneto vogliono trattenere in misura maggiore dal prelievo fiscale. E’ del tutto evidente che se i quattrini da impiegare per riequilibrare le differenze tra le Regioni non possono crescere come afferma il ddl Calderoli e ad alcune di loro – Lombardia e Veneto anzitutto – verranno dati maggiori poteri e risorse, con la motivazione che lo stato già impiega quelle risorse per gli scopi indicati, le altre rimarranno con quello che hanno attualmente, cioè sotto le macerie finanziarie della spesa storica. In questo modo la distanza tra le regioni crescerebbe perchè quelle che non hanno risorse da trattenere hanno bisogno di un intervento di solidarietà nazionale con fondi che vengono esclusi in radice proprio dal ddl che dovrebbe prevedere le risorse necessarie.
Quindi il trucco per dare soldi ad alcune Regioni e ad altre no c’è, ma si tenta di nasconderlo. Perché una parte della maggioranza ha accettato questa via, rischiando di compromettere – ad esempio – l’istruzione pubblica nazionale che è un punto fermo dei diritti insieme della coesione sociale? Perché la contropartita è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, a cui tanto tiene Giorgia Meloni (questo è il vero scambio) che la vede come l’inizio di un cambiamento profondo della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, da cui dovrebbe emergere come figura pigliatutto il capo del governo, riducendo drasticamente i poteri del Presidente della Repubblica e il ruolo fondamentale del Parlamento, costretto ad approvare le decisioni del governo o ad andare a casa.
Si tratta di un accentramento di poteri nelle mani del capo del governo mai visto e le “api operaie” (i parlamentari attuali della maggioranza) stanno già portando il loro contributo per accrescerne i poteri – come con il ddl Calderoli – prima ancora che sia approvata la modifica costituzionale del premierato. Vittima di tutto questo è l’Italia che verrà azzoppata da 2 modifiche sbagliate e controproducenti delle istituzioni del nostro paese. Poteri maggiori ad alcune Regioni concepite come traino, mentre le altre saranno lasciate al loro destino, e accentramento nelle mani del Presidente del Consiglio, riducendo drasticamente i poteri di indirizzo e controllo del Parlamento sul Governo e sul suo capo.
Un’altra Repubblica? Non solo. Un’altra Costituzione, superando quella democratica del 1948 basata sulla divisione dei poteri, nata dalla Resistenza che ha cacciato il fascismo e ridato dignità all’Italia.
Sacrosanto invertire l’ordine del giorno del Senato per mettere la discussione del ddl Calderoli sull’autonomia regionale differenziata dopo l’esame della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare (106.000 firme) che chiede di cambiare gli articoli 116 e 117, proposta che - se approvata - imporrebbe di ridiscutere da capo il ddl Calderoli.
Se maggioranza e Governo sono contrari al ddl di iniziativa popolare se ne dovrebbero assumere la responsabilità con il voto, mentre finora la 1 Commissione non l’ha neppure esaminato. Per fortuna il nuovo regolamento del Senato attento alle iniziative popolari (proposto dall’ex Presidente Piero Grasso) impone di discuterle direttamente nell’assemblea del Senato, ma è illogico discutere delle modifiche della Costituzione solo dopo la legge ordinaria per l’autonomia regionale differenziata. Questa è solo la conferma che la maggioranza usa i rapporti di forza parlamentari, regalati da un premio di maggioranza del 15 %, come una clava per imporre la sua volontà contro ogni proposta ragionevole.
Alfiero Grandi vice Presidente
10/1/24
]]>Giorgia Meloni nella Conferenza stampa ha dimostrato di non avere studiato. Infatti ha continuato a sostenere che il cambiamento della Costituzione firmato dal Governo non toccherebbe i poteri del Presidente della Repubblica e il ruolo del parlamento. È una balla, come hanno già dimostrato tanti costituzionalisti.
Basta ragionarci sopra. Se il Presidente del Consiglio aumenta i suoi poteri è evidente che li sottrae a qualcun altro. È ora di smettere di fingere che le modifiche non cambiano il ruolo del Presidente della Repubblica perché perderebbe in pratica il potere di nominare il Presidente del Consiglio che viene eletto direttamente e non potrebbe tentare di risolvere crisi di governo con altre proposte. In pratica se salta l’eletto dal popolo salta la legislatura. Inoltre il Presidente della Repubblica non potrebbe più decidere di sciogliere le Camere perché solo le dimissioni dell’eletto possono portare a elezioni anticipate. Il Presidente della Repubblica verrebbe ridotto a un notaio.
Il premierato cambia la natura democratica e antifascista della Repubblica
Non a caso La Russa, rendendosi conto dell’enormità delle affermazioni che i poteri del Presidente della Repubblica non verrebbero toccati, si è arrampicato sugli specchi affermando che gli verrebbero tolti solo poteri non scritti (tesi quanto meno ardita) ammettendo implicitamente che verrebbe ridimensionato.
Il parlamento verrebbe ridotto ad un ruolo di mera approvazione dei provvedimenti del Governo dove verrebbero concentrati i poteri, ovviamente sottratti alle altre sedi istituzionali.
È rivelatrice la risposta di Giorgia Meloni sulla legge elettorale quando ha risposto ad una domanda dimostrando di essere preoccupata solo della percentuale di voti in grado di fare scattare il premio di maggioranza per arrivare al 55% dei parlamentari, visto come la garanzia per il Presidente del Consiglio eletto direttamente.
Nel frattempo la destra è già alacremente al lavoro per accrescere i poteri del Governo e in particolare del Presidente del Consiglio. Basta pensare alla legge sull’autonomia regionale differenziata che ha inglobato emendamenti di Fratelli d’Italia che affidano al Presidente del Consiglio la decisione finale sulle materie oggetto di decentramento alle Regioni, infatti può aggiungere o togliere senza dovere renderne conto. Ci sono altri esempi di un lavorio intenso per trasferire altri poteri al Presidente del Consiglio.
Dalle risposte di Giorgia Meloni è apparso chiaro che il modello di riferimento sono le Regioni, i cui Presidenti sono presi a riferimento, perfino invidiati.
Il sistema istituzionale rischia di rimanere senza contrappesi
È evidente che nascondere i contraccolpi delle modifiche costituzionali serve ad evitare di affrontare la delicatissima questione dei contrappesi di potere, della serie: se non ci sono sostanziali modifiche istituzionali non c’è bisogno di contrappesi. Questa finzione va denunciata e va chiarito che si tratta di una modifica di fondo della Costituzione del 1948, democratica (basata sulla separazione dei poteri) e antifascista, quindi contraria all’accentramento dei poteri in una persona, in questo caso il Presidente del Consiglio.
Perché una maggioranza che ha ottenuto un premio di maggioranza del 15%, grazie alla legge elettorale in vigore, con il quale ha ora una maggioranza schiacciante in parlamento del 59% vuole a tutti i costi cambiare la Costituzione? Ne ha bisogno, vuole cambiare la Costituzione per raccontare al paese la favoletta che la responsabilità degli scarsi risultati sarebbe della Costituzione e che un Presidente del Consiglio con maggiori poteri potrebbe ottenere ben altri risultati. Un rovesciamento della realtà.
I risultati del Governo sono scarsi o addirittura controproducenti perché questa destra non riesce ad affrontare la realtà con le sue parole d’ordine e quindi deve scaricare le colpe sulla Costituzione. Per di più ha oggi una maggioranza che le consentirebbe di fare scelte importanti ma non ne è capace o non vuole farle e quindi cerca una via di fuga, uno scaricabarile pericoloso sulla Costituzione. Per di più Fratelli d’Italia, anche per compensare i vuoti politici, cerca di compattare il suo mondo su parole d’ordine di accentramento dei poteri in una persona che da sempre sono un obiettivo della destra, prima con il presidenzialismo, ora con il premierato.
Infine Giorgia Meloni ha chiarito che il Governo procederà non solo con le modifiche della Costituzione ma anche con l’autonomia regionale differenziata voluta ad ogni costo dalla Lega.
Le opposizioni non debbono illudersi, la destra ha un obiettivo eversivo nei confronti della nostra Costituzione e quindi occorre cercare di bloccare in parlamento i progetti di legge sull’autonomia regionale differenziata e sulle modifiche della Costituzione, usando tutti i mezzi leciti a disposizione ma anche preparandosi al referendum costituzionale. Le opposizioni debbono respingere le proposte della destra senza se e senza ma e preparasi al referendum costituzionale.
Le destre non hanno i due terzi dei parlamentari per evitare il referendum popolare. Solo una frana nell’opposizione può consentire alle destre di evitare il referendum popolare. Se le opposizioni avranno al centro l’obiettivo di attuare e difendere la Costituzione troveranno in questo il fondamento per costruire una schieramento alternativo alle destre, per un’alternativa di governo.
Le destre hanno ottenuto nel 2022 il 59% dei deputati e dei senatori, con una maggioranza parlamentare che non ha eguali nella storia degli ultimi decenni: nel 2008 Berlusconi si era fermato al 54%. Ciò grazie alla legge elettorale in vigore che è maggioritaria, con un premio di maggioranza occulto che nel 2022 è arrivato al 15%, più del porcellum. Questo dato rivela che l’attuale difficoltà della maggioranza è tutta politica. Le destre non sono in grado di presentare al Paese, e al loro elettorato, risultati paragonabili alle promesse elettorali. L’alluvione di decreti legge con cui stanno governando conferma decisioni episodiche, raffazzonate, corporative. Per di più all’interno della maggioranza c’è un’aspra concorrenza, più di quanto si vuole fare apparire. Questo spinge Giorgia Meloni a cercare nelle modifiche della Costituzione il capro espiatorio delle difficoltà che incontra il Governo. È il tentativo di compensare le difficoltà del governare con un obiettivo che storicamente sta molto a cuore alle destre come l’elezione diretta del capo, in questo caso del presidente del Consiglio. Non basta più, alla destra, il criterio che chi prende più voti guida la maggioranza, visto che tra le sue componenti c’è una dura concorrenza politica sul piano interno ed europeo in vista delle elezioni del 9 giugno. Per questo sbaglia chi pensa che Giorgia Meloni possa ritirare la proposta di legge che modifica la Costituzione: la presidente del Consiglio ne ha assoluto bisogno anche in vista delle elezioni europee, per compensare l’autonomia regionale differenziata a cui la Lega punta per avere un risultato da spendere in campagna elettorale.
La proposta di Giorgia Meloni ha due pilastri. Il primo è l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei Ministri. Il secondo è una legge elettorale maggioritaria (55%) che garantisca uno stretto collegamento tra il capo del governo, eletto direttamente, e i “suoi” parlamentari, grazie al fatto che per la prima lista (partito o coalizione) è previsto il il 55% dei parlamentari anche con percentuali sotto il 40% (come ha rivelato il sottosegretario Fazzolari). Nella relazione del disegno di legge, come nelle presentazioni fin qui fatte, si afferma che la soluzione proposta non toccherebbe i poteri del Presidente della Repubblica. Questa è una balla, di cui deve essersi reso conto perfino il presidente del Senato La Russa che, uscendo dal suo ruolo, ha sostenuto che la proposta toglierebbe al presidente della Repubblica “un di più”, cioè i poteri attribuitigli oltre quanto previsto dalla Costituzione. Anche questa, peraltro, è una balla perché l’articolo 92 cella Costituzione è cristallino: il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei Ministri, senza vincoli e condizionamenti. Ma se il presidente del Consiglio è eletto direttamente, è inevitabile un conflitto con i poteri del presidente della Repubblica, destinato in futuro a un ruolo notarile. Il disegno di legge cambia i poteri. Del resto è così anche con il Parlamento la cui maggioranza (55%) avrebbe un legame a doppio filo con il capo del Governo, da cui dipenderebbe e di cui diventerebbe la “guardia pretoria”.
In queste settimane, in occasione della legge di bilancio 2024, c’è stata un’anticipazione di come cambierebbe il sistema politico e istituzionale. I capi dei partiti della maggioranza hanno “ordinato” ai loro parlamentari di non presentare emendamenti alle proposte del Governo, imponendone il ritiro a qualcuno che non obbediva (Lega), ma, ciononostante, l’approvazione è arrivata poco prima della scadenza e sol perché le opposizioni hanno deciso di non spingere la maggioranza verso l’esercizio provvisorio. I tempi di approvazione della legge di bilancio non sono migliorati, il Governo ha discusso gli emendamenti solo all’interno della maggioranza contraddicendo l’articolo 67 della Costituzione che prevede che i parlamentari agiscano senza vincolo di mandato e l’opposizione è stata relegata a iniziative senza speranza. È il modello che diventerebbe regola con il cambiamento della Costituzione e con una legge elettorale che mantenga la dipendenza dal presidente del Consiglio dei parlamentari, che potrebbero solo approvare i voleri del capo, senza alcuna autonomia. Verrebbe sterilizzato il ruolo politico del presidente della Repubblica verso il Governo e gli verrebbe sottratta la facoltà di sciogliere le Camere; e a questo si aggiungerebbe un Parlamento ridotto a un ruolo subalterno a fronte di un Governo che finirebbe con l’assorbire anche il potere legislativo.
Bisogna fermare questo delirio costituzionale. La modifica proposta non è di manutenzione ma di cambiamento radicale della Costituzione antifascista e democratica, fondata su una netta separazione dei poteri e dei compiti, perché l’obiettivo è portare l’Italia verso una Costituzione accentratrice e autocratica. Fratelli d’Italia lascia capire che in questo modo si contrasterebbero le spinte della Lega verso la secessione delle regioni ricche, definizione non così lontana dalla realtà perché l’obiettivo dell’autonomia regionale differenziata è trasferire poteri, e soprattutto risorse per esercitarli, a Lombardia e Veneto. Così i cambiamenti inseriti da Fratelli d’Italia nel disegno di legge Calderoli vanno nella direzione di affidare al solo presidente del Consiglio la possibilità, negli accordi con le regioni, di mettere e togliere materie da devolvere, senza l’obbligo di sentire preliminarmente il Parlamento, che è già trattato, di fatto, come un organo di mera ratifica delle decisioni del Governo. Il disegno di legge costituzionale, fingendo di limitarsi a pochi interventi, attacca frontalmente la Costituzione, mentre, in preparazione, si stanno sperimentando nuove attribuzioni di poteri al solo presidente del Consiglio, riducendo a ratifica il ruolo del Parlamento. La maggioranza usa il premio di maggioranza come clava per imporre uno stravolgimento della Costituzione.
Parte dell’opposizione sembra non avere compreso la natura cruciale della sfida a cui siamo di fronte. Ha, invece, le idee chiare Giorgia Meloni, che non a caso dice apertamente di voler chiedere il voto popolare a sostegno delle modifiche costituzionali. Anche con il soccorso di Renzi la maggioranza non arriverebbe ad approvare il disegno di legge con i due terzi dei parlamentari (circostanza che, sola, potrebbe impedire il referendum popolare). Soltanto una frana politica di altri settori dell’opposizione potrebbe consentire alle destre di evitare il referendum.
In questo contesto occorre aver chiaro che non c’è spazio per modificare la proposta del Governo. Fratelli d’Italia non può accettare cambiamenti di sostanza. Non siamo di fronte a tecnicismi, ma a una scelta politica che punta a restare al potere con la possibilità di avviare ulteriori cambiamenti istituzionali. Un esempio: se si voterà nel 2027, dopo due anni scadrà il mandato di Mattarella e la maggioranza uscita dalle urne potrebbe eleggere un suo presidente della Repubblica (magari La Russa) completando l’occupazione del potere, perché il Presidente nomina un terzo della Corte costituzionale e presiede il Consiglio superiore della magistratura. Questo disegno va nella direzione di quanto chiedevano all’Italia grandi finanziarie e agenzie di rating: abbandonare i connotati antifascisti e sociali della Costituzione nata dalla Resistenza.
Sarebbe imperdonabile dare ascolto alle sirene che si muovono per convincere settori dell’opposizione che con queste destre una trattativa è possibile. Non si può attenuare la denuncia del disegno autoritario in atto. Occorre preparare da subito gli argomenti che dovranno essere posti al centro del confronto politico parlamentare e nel paese, in vista del referendum popolare che andrà gestito come oppositivo, senza se e senza ma. Non va sottovalutato l’argomento che Giorgia Meloni ha già usato: volete decidere voi elettori o lasciare decidere ai partiti? L’astensionismo è misura della sfiducia, del distacco dalla politica. Affermazioni come quelle della Meloni vengono fatte da chi è contemporaneamente presidente del partito che ha più voti, presidente dei Conservatori europei e presidente del Consiglio. È incredibile che proprio lei si appelli al voto diretto contro i partiti, ma ciò ha una spiegazione nel populismo della destra e nella volontà di non dipendere più, in futuro, da Salvini e da altri alleati.
Ma non basta dire no. È necessario ma non basta. Occorre contrapporre alla proposta di votare direttamente il presidente del Consiglio il ripristino dell’elezione diretta dei deputati e dei senatori da parte di elettrici ed elettori, per ridare un ruolo centrale al Parlamento come luogo della rappresentanza. In altre parole occorre cambiare la legge elettorale ma nella direzione opposta: sistema proporzionale e scelta diretta degli eletti da parte degli elettori (che oggi non hanno più rapporti diretti). Giorgia Meloni sta puntando a portarci fuori dalla Costituzione del 1948. Non è la prima che si prova a stravolgerla. Renzi è l’esempio più vicino, per fortuna sconfitto dal referendum nel 2016. Ma non è automatico che ciò accada di nuovo. Non sottovalutiamo la sfida attuale. È indispensabile che le opposizioni capiscano che è necessaria una svolta rispetto alla faciloneria con cui sono stati fatti in passato tentativi di cambiare la Costituzione, che ha bisogno più che mai di essere attuata e difesa, non stravolta. Non è stato un bell’esordio quello del neo presidente della Corte costituzionale che ha auspicato un accordo in Parlamento per evitare il referendum popolare. Questo appartiene a un passato che ha subito la pressione di un decisionismo volto ad affidare al Governo e al capo le decisioni. Oggi il ruolo del Governo si è dilatato fino a rendere il Parlamento subalterno. È il momento di ridare a quest’ultimo un ruolo decisivo, come da Costituzione, correggendo errori del passato, come la modifica del titolo V voluta nel 2001 dal centro sinistra, nel tentativo di inseguire la Lega sul suo terreno, che si è rivelata sbagliata in punti importanti e non è servita a dare vantaggi elettorali. L’indigestione nell’uso dei decreti legge, dei voti di fiducia, dei maxiemendamenti che le destre hanno portato a sistema sta creando seri problemi di ingorgo nei lavori parlamentari e peggiora le iniziative legislative, sempre più contingenti e propagandistiche. Il confronto parlamentare dovrebbe costringere tutti a dare il meglio di sé, a guardare lontano, ad agire per progetti, con lo sguardo al futuro.
La modifica della Costituzione proposta da Giorgia Meloni va respinta perché farebbe male all’Italia. Se, per la forza dei numeri, il Parlamento non riuscirà a fermarla si dovrà tenere aperta ad ogni costo la strada del referendum popolare per fare decidere elettrici ed elettori, tra i quali non esiste maggioritario. Così ogni elettore potrà contribuire a difendere la Costituzione nata dalla Resistenza.